Secondo l’agenzia Onu dal 2003 “l’Iran mostra segnali preoccupanti di un’attività volta alla ‘militarizzazione’ dell’atomo”. Il tutto basato su ”informazioni credibili”. Il regime iraniano non ha mai confermato questa ipotesi, ribadendo ancora che il suo programma nucleare ha finalità solo civili.
Le 25 pagine del rapporto fanno riferimento ai contenuti di un pc portatile che sarebbe stato rubato in Iran e finito poi nelle mani dell’intelligence statunitense, di cui si parlò per la prima volta nel 2004. Se anche tali documenti fossero autentici, nessuno può provare che siano collegabili agli organi ufficiali iraniani, dal momento che né l’AIEA né l’Iran hanno potuto visionarli. Inoltre l’infondatezza del file elettronico in questione è stata già dimostrata dall’Iran nel 2008 in un dossier di 117 pagine. Questi file contengono solo una serie di esperimenti e simulazioni computerizzate, il ché non implica che siano stati messi in pratica.
Molti esperti hanno affermato che tale rapporto non differisce molto dal “National Intelligence Estimate” americano del 2007, il quale concluse che l’Iran aveva sospeso il proprio programma nucleare militare nel 2003.
Secondo lo stesso Mark Fitzpatrick, esperto nucleare americano presso l’Istituto di studi strategici, il rapporto dell’AIEA conferma che la gran parte del programma iraniano a scopo bellico fu sviluppata tra il 1998 e il 2003. Alcuni studi teorici proseguirono negli anni successivi in maniera solo saltuaria, e non vi è alcuna indicazione che l’Iran sia in grado di gestire tutti gli stadi del processo necessario a costruire un’arma atomica.
Sulla base di questi dati, l’idea prevalente fra gli esperti è che l’Iran sarebbe interessato a impadronirsi delle conoscenze teoriche necessarie a sviluppare un ordigno nucleare, ma non starebbe in alcun modo tentando di costruirlo. Vi è poi chi sostiene che Teheran voglia assicurarsi solo la cosiddetta capacità di “breakout”, cioè raggiungere quella soglia che gli permetterebbe di costruire rapidamente una bomba all’occorrenza (ad esempio nel caso della minaccia di un attacco imminente da parte di una potenza ostile come gli Stati Uniti o Israele).
Il regime iraniano sa che, qualora si sforzasse di costruire concretamente un’arma atomica, si alienerebbe anche l’appoggio di Russia e Cina, ed il suo isolamento a livello internazionale diverrebbe totale. Per il momento, tuttavia, i dati esposti dal rapporto dell’AIEA non sembrano preoccupare molto Mosca e Pechino.
L’unico elemento nuovo consiste nella rivelazione di uno scienziato russo, Vyacheslav Danilenko, che avrebbe preparato l’Iran per la guerra nucleare. Lo storico e analista di politica militare Gareth Porter ha scoperto però che lo scienziato avrebbe in realtà lavorato in Russia solo sulla produzione di diamanti attraverso la detonazione, cioè di nano diamanti che nulla hanno a che vedere con le armi nucleari.
In casi come questi la cautela è d’obbligo, dal momento che competenze altamente specialistiche quali quelle di Danilenko potrebbero comunque essersi rivelate utili per la costruzione di esplosivi nucleari.
Ciò che risulta evidente però, è la superficialità con la quale i membri dell’AIEA abbiano riportato tali informazioni, senza appurarne le fonti. David Albraight, direttore dell’Istituto Internazionale per la scienza e la sicurezza, che era la fonte principale dell’agenzia Onu per le notizie su Danilenko, non si è mai preoccupato di verificare l’accuratezza dell’originaria dichiarazione di “uno Stato membro” che è quindi diventata la base delle accuse.
Senza dimenticare che quel David Albraight è lo stesso che nel 2002 avallò le accuse contro l’Iraq che sostenevano l’esistenza di armi di distruzione di massa, poi rivelatesi inesistenti. Peccato che nel frattempo l’amministrazione Bush avesse fatto in tempo a lanciare l’intervento militare contro il regime di Saddam Hussein.
Questo non è l’unico elemento in comune tra la vicenda irachena e quella iraniana. Anche i giornali occidentali sembrano comportarsi come alla vigilia dell’invasione dell’Iraq, e lo scienziato Danilenko ricorda non poco Rafid Ahmed Alwan al-Janabi meglio conosciuto come Curveball ,il disertore che convinse la Casa Bianca che in Iraq esistevano armi di distruzioni di massa.
Tornando al problema dell’attendibilità dei dati forniti dall’agenzia Onu, il rapporto si basa su un’enorme massa di informazioni provenienti dalle agenzie di intelligence occidentali (notoriamente ostili a Teheran) e non verificabili in maniera indipendente da parte dell’AIEA.
Tale questione era stata ripetutamente sollevata da Mohamed El Baradei, il predecessore dell’attuale direttore dell’AIEA Yukiya Amano, che è invece accusato da Teheran di essere troppo accondiscendente nei confronti degli USA . Ancora pochi giorni prima della pubblicazione del rapporto, Amano si era infatti recato a Washington per consultarsi con i responsabili dell’amministrazione americana e assicurare loro di essere fermamente d’accordo “su tutte le fondamentali decisioni strategiche”.
Perché l’Iran dovrebbe volere l’arma atomica?
Esiste in primo luogo una ragione strategica.
La bomba atomica infatti è un potente strumento politico per accrescere lo status internazionale di un paese. Essa fornisce nello stesso tempo un formidabile deterrente contro ingerenze dall’estero e una leva per esercitare maggiore pressione diplomatica. Se l’Iran dovesse diventare una potenza nucleare, gli equilibri regionali nel Golfo Persico e nel Vicino Oriente ne verrebbero rivoluzionati. Dati i difficili rapporti tra il governo di Teheran e i suoi vicini – l’Iran non può contare su governi amici al di là di quello siriano – uno spostamento dei rapporti di forza a suo favore diverrebbe un ulteriore fattore di rischio in una regione altamente instabile.
Teheran ha intessuto una fitta rete di rapporti con diversi attori regionali che si oppongono alle politiche americane nell’area – dalla Siria a Hezbollah ad alcuni gruppi armati palestinesi – che possono essere persuasi ad azioni di disturbo. L’Iran può anche contare sulla sua capacità d’influenza in Afghanistan e soprattutto tra gli sciiti iracheni.
L’acquisizione di un deterrente nucleare rafforzerebbe considerevolmente la posizione dell’Iran rispetto ad Israele e agli stati arabi del Golfo, creando un contrappeso per l’intero sistema di alleanze e rapporti grazie al quale gli Stati Uniti si sono assicurati il loro primato regionale.
In secondo luogo vi sono le motivazioni economiche, che sono anche quelle che hanno causato i maggiori sospetti fra gli osservatori internazionali.
Ci si chiede infatti perché un paese come l’Iran, dotato di vaste risorse petrolifere e di gas, debba investire anche in tecnologia nucleare a fini energetici. Si omette però di ricordare che dal 1979 l’Iran è sottoposto a sanzioni economiche stringenti, che ironicamente hanno reso necessarie fonti energetiche aggiuntive.
E si omette anche di evidenziare che un altro Stato della regione, il Kuwait – ricchissimo di petrolio- ha di recente investito 20 miliardi di dollari sul reattore nucleare collocato sull’isola di Warba, distante solo 500 metri dalla più vicina zona irachena non abitata. Tra l’altro con il cospicuo apporto del gigante francese AREVA, principale investitore nell’impresa. Un altro accordo bilaterale è stato invece siglato con il Giappone, sulla cooperazione per l’uso pacifico dell’energia nucleare.
Insomma l’Iran non sarebbe l’unico paese nella regione tanto contesa a cercare di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico.
Sarebbe però l’unico a non cercare appoggi e finanziamenti dalle potenze occidentali.
RUSSIA E CINA
Mosca e Pechino si sono dimostrate inizialmente concordi nel ritenere il rapporto motivato politicamente e privo di prove concrete a sostegno delle accuse contro l’Iran. Mosca ha dichiarato: “è importante capire se ci sono davvero fatti nuovi, e attendibili, che confermano i sospetti relativi alla presenza di componenti militari del programma nucleare iraniano, o se stiamo parlando di una esacerbazione intenzionale e controproducente di emozioni“; Il ministro russo degli Esteri, Sergei Lavrov,ha affermato inoltre che il rapporto punterebbe “ad affondare le chance di soluzione diplomatica”.
Posizione leggermente più sfumata da parte di Pechino, che ha criticato sia l’Iran sia l’AIEA, invitando Teheran ad essere “responsabile, flessibile e collaborativa“, ma sottolineando come l’agenzia delle Nazioni Unite debba essere “oggettiva“.
A motivare la posizione di Russia e Cina vi sono innanzitutto gli interessi economici che entrambe le potenze asiatiche hanno in Iran. Mosca vende armi a Teheran e sta contribuendo a sviluppare il suo programma nucleare civile. Pechino ha compiuto enormi investimenti nello sviluppo dei giacimenti iraniani di petrolio e di gas.
L’Iran è inoltre il terzo fornitore di petrolio per la Cina, dopo l’Arabia Saudita e l’Angola (secondo i dati dello scorso anno), ed è il secondo fornitore dell’India, che è entrata recentemente a far parte dei membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza.
Ulteriori sanzioni ONU contro l’Iran andrebbero inevitabilmente a colpire il settore energetico iraniano, danneggiando gravemente gli interessi di questi paesi. Lo scenario di un attacco militare sarebbe ancora peggiore, poiché farebbe schizzare alle stelle i prezzi del greggio e causerebbe una crisi petrolifera (determinata dal venire meno della produzione iraniana e dalla possibile chiusura dello Stretto di Hormuz) di cui Cina e India, che notoriamente dispongono di scarse riserve, sarebbero le prime vittime.
EUROPA
Il Regno Unito e la Francia hanno chiesto “nuove e forti sanzioni “. Il ministro degli Esteri francese Alain Juppé ha sollecitato la convocazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ritenendo necessarie qualora “l’Iran rifiuti di attenersi alle richieste della comunità internazionale e respinga tutte le iniziative serie di cooperazione” delle “misure senza precedenti”.
In una dichiarazione alla Camera dei Comuni il ministro degli Esteri britannico William Hague ha dichiarato: “Qualora Teheran non entri in serie negoziazioni dobbiamo continuare ad aumentare la pressione e stiamo valutando con i nostri partner una serie di misure aggiuntive in tal senso“. Anche il Regno Unito quindi lascia l’opzione militare sul tavolo.
Infine Catherine Ashton, rappresentante dell’Ue per gli affari esteri ha affermato che il recente rapporto sul programma nucleare iraniano “aggrava seriamente” le preoccupazioni dell’Unione Europea.
ISRAELE
In Israele la crisi economica morde come mai dalla fondazione dello Stato ebraico e la liberazione di Gilad Shalit, appagando parte dell’opinione pubblica, necessitava di una contro mossa per equilibrare il suo esecutivo che si regge sui falchi guidati dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.
Oggi bisogna capire quanto tutta questa manovra di accelerazione nei confronti dell’Iran voglia solo essere uno strumento di pressione e quanto, invece, punti a creare un clima favorevole a un attacco nell’opinione pubblica internazionale.
La storia insegna che le gravi crisi economiche mondiali, spesso, hanno portato le classi dirigenti a ‘investire‘ in un conflitto. E’ questo il caso? Di sicuro le parole del presidente israeliano Shimon Peres non sono rassicuranti. Lungi dall’essere un uomo di pace, bisogna ammettere che però raramente Peres ha usato – come ha fatto il 4 novembre scorso – toni così foschi. ”L’opzione militare si avvicina”, ha ventilato Peres.
Israele rimane senza dubbio il paese più propenso all’opzione bellica contro Teheran. Ma al di là della retorica di Netanyahu, non tutti nel governo di Tel Aviv sono favorevoli a una simile ipotesi, e soprattutto ad essa si oppongono i vertici della sicurezza nazionale. Tuttavia questa opposizione diminuirebbe considerevolmente se ad assumersi l’onere dell’attacco fossero gli Stati Uniti.
L’obiettivo a breve termine di Israele era fare in modo che la propria minaccia di intervenire militarmente, affiancata dalle nuove “prove” fornite dal rapporto dell’AIEA, spingesse la comunità internazionale ad adottare una posizione più dura nei confronti di Teheran, sotto forma di nuove sanzioni internazionali.
Ad ogni modo il governo israeliano potrebbe essere tentato dall’idea di un attacco preventivo contro le installazioni nucleari iraniane, in un momento in cui il presidente Obama non è nelle condizioni di contrastare le lobbies ebraiche e cristiane e mentre l’Europa è assorbita dalla crisi finanziaria.
STATI UNITI
A Washington l’attuale amministrazione sembra intenzionata a percorrere la strada delle sanzioni dure e dell’isolamento internazionale di Teheran, ma al momento non ritiene praticabile l’azione militare. Lo ha detto chiaramente il segretario alla difesa Leon Panetta, che ha sottolineato i rischi e la futilità di un attacco che potrebbe tutt’al più ritardare il programma nucleare iraniano di qualche anno. Questa tesi è condivisa anche dai vertici militari.
Tuttavia negli Stati Uniti vi è un fronte interventista, costituito dai principali candidati repubblicani alla prossima presidenza, dalla potente lobby filo-israeliana dell’AIPAC e da una serie di think-tank di orientamento neocon, che sta acquisendo slancio e compattezza.
La lobby israeliana negli Usa non ha perso tempo, premendo in Congresso per l’approvazione di misure punitive contro la Banca centrale dell’Iran e per una legge che vieti ogni contatto diplomatico con l’Iran a meno ché non sia in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
Ovviamente molte di queste posizioni aggressive sono espresse principalmente a fini elettorali, rappresentando un’arma per colpire Obama nella prossima campagna presidenziale. Tuttavia, sarebbe un errore sottovalutare la determinazione dei “falchi” della destra americana, tanto più se si tiene conto che l’inevitabile fallimento delle sanzioni riporterà in primo piano l’opzione militare. Esiste dunque il pericolo che Obama si lasci “ricattare”: la rielezione in cambio di una nuova guerra.
Chi negli Stati Uniti si oppone a quest’eventualità ne ha ben chiare le disastrose conseguenze: lievitazione del prezzo del greggio fino a 300 o 400 dollari al barile e corsa al riarmo in tutto il Vicino Oriente e in Asia Centrale, come ha evidenziato anche il Ministro degli Esteri israeliano Barak.
Ma nel frattempo, come ha detto lo stesso Obama, tutte le opzioni restano aperte. In quest’ottica si spiegano i 4900 ordigni ad alta precisione venduti all’Arabia Saudita, storico antagonista dell’Iran e quindi pronto ad appoggiare l’assedio nei confronti del vicino. Secondo Sergei Druzhilovsky, professore all’Istituto di Relazioni Internazionali di Mosca, lo scopo degli Usa sarebbe quello di provocare una risposta irrazionale da parte dell’Iran e giustificare così l’uso della forza armata. La forza statunitense risiederebbe infatti nelle sue basi in Arabia Saudita, Kuwait e Bahrein oltre ché nella flotta stanziata nel Golfo Persico, più che sugli arsenali dei singoli paesi alleati.
Senza contare che questo sì, è un ottimo modo per combattere la recessione economica (60 miliardi di dollari di vendite all’Arabia Saudita e 1,25 miliardi all’Oman).
A proposito di provocazioni, appare quanto meno bizzarra la serie di coincidenze che hanno di recente colpito l’Iran, che nei mesi scorsi è stato vittima di una serie di attacchi – dall’uccisione dei suoi scienziati nucleari ad azioni di sabotaggio delle sue strutture, al worm “Stuxnet”, un potente virus che ha mandato in tilt le centrifughe per l’arricchimento dell’uranio. Tali attacchi sono stati attribuiti a un’azione congiunta di diversi servizi di intelligence occidentali, probabilmente in primo luogo del Mossad in collaborazione con i servizi americani.
Anche la recentissima esplosione alla base missilistica di Bid Ganeh, in cui sono rimasti uccisi 17 esponenti di spicco della Guardia Rivoluzionaria iraniana, è stata attribuita da alcuni all’azione di servizi stranieri, forse israeliani. Lo scrive il Guardian, citando fonti anonime interne agli apparati di sicurezza iraniani. Il governo iraniano ufficialmente non ha lanciato accuse e non ha parlato di attacchi di potenze straniere ma secondo fonti del quotidiano britannico, Teheran è sempre più convinta che si sia trattato di una vera e propria operazione militare dietro la quale si riconosce l’ombra del Mossad.
Accuse pesanti, che si aggiungono a quelle degli Stati Uniti nei confronti di Teheran, accusata di preparare attentati contro obiettivi israeliani e sauditi nel territorio degli Usa.
Queste azioni naturalmente aumentano il rischio di una rappresaglia da parte iraniana, o addirittura potrebbero essere pianificate proprio con questo obiettivo, visto che secondo alcuni una reazione da parte di Teheran potrebbe fornire il pretesto per un attacco militare contro le sue installazioni nucleari.
Quello che ci si può attendere nei prossimi mesi è pertanto una prosecuzione della politica delle sanzioni, dell’assedio militare e delle operazioni “sotto copertura” volte a sabotare il programma nucleare iraniano.
CONCLUSIONI
La diversità di posizioni sulla questione del nucleare iraniano potrebbe trovare comunque un minimo comune denominatore. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non sembrano escludere la possibilità di un attacco militare a Teheran, ma continuano a credere nell’efficacia di una nuova serie di sanzioni internazionali. La Germania e la Francia giudicano invece impensabile un attacco, ma sarebbero pronti ad un inasprimento delle sanzioni. Alla fine anche Russia e Cina potrebbero cedere all’imposizione di nuove sanzioni per evitare le pericolose conseguenze di un attacco israeliano. Le minacce israeliane di un raid preventivo, come sostenuto da più parti potrebbero essere un bluff, ma le conseguenze di un eventuale attacco, sarebbero troppo pericolose per correre il rischio, e questo costringerebbe le altre potenze a continuare le pressioni sull’Iran per tenere sotto controllo il fattore Israele.
Un attacco all’Iran infatti rischierebbe di provocare una catastrofe per via dell’intreccio di tre crisi principali. In primo luogo, una crisi petrolifera che potrebbe mettere in ginocchio le economie occidentali. Inoltre, l’attacco all’Iran e le possibili risposte iraniane potrebbero innescare una crisi politica regionale e destabilizzare molti paesi arabi, tra cui l’Arabia Saudita e gli emirati del Golfo. Infine, una vera e propria crisi globale: il Vicino Oriente, oggi, si trova in bilico tra la sfera strategica occidentale e l’emergente sfera strategica asiatica, dominata dalla Cina, o euro-asiatica con la Russia. L’Iran è ormai legato alla sfera euro-asiatica (ancor di più dopo la recente richiesta di diventare membro a pieno titolo dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai): attaccare militarmente l’Iran vorrebbe dire minacciare gli interessi strategici della Russia e della Cina e portare il mondo sull’orlo del baratro.
Ciò significa che a livello internazionale la fase di stallo sulla questione nucleare iraniana proseguirà, mentre le tensioni fra Teheran da un lato e Israele, gli Stati Uniti e l’Europa dall’altro si inaspriranno a causa delle continue minacce israeliane, delle possibili ulteriori sanzioni da parte europea ed americana, e del fatto che tutto ciò non distoglierà l’Iran (così come non l’ha distolto finora) dal portare avanti il proprio programma nucleare civile.
* Nerina Schiavo è laureanda in Relazioni Internazionali presso l’Università La Sapienza di Roma