Nel rapporto recentemente pubblicato, l’Agenzia ONU per il nucleare ha espresso grande preoccupazione in merito all’espansione del programma nucleare iraniano ed in particolare alle possibili applicazioni in ambito militare della tecnologia nucleare sviluppata dalla Repubblica islamica. Sebbene non ne esista ancora chiara evidenza, secondo la IAEA il governo iraniano avrebbe sviluppato attività finalizzate alla creazione di armi nucleari, applicabili solo in maniera limitata all’ambito civile o al settore militare convenzionale. Pur avendo ricevuto pesanti critiche, il rapporto ha suscitato la preoccupazione di molti attori internazionali, intimoriti dalle implicazioni che un Iran nucleare determinerebbe.
Gli sviluppi recenti della controversia sul programma nucleare iraniano
La contesa diplomatica ha riguardato principalmente l’arricchimento dell’uranio, procedimento necessario sia alla produzione di energia sia alla fabbricazione di ordigni nucleari. Il TNP riconosce agli Stati membri la possibilità di arricchire uranio per scopi civili. Tuttavia l’accordo di garanzia e il protocollo aggiuntivo, siglati dall’Iran, obbligano il Paese a sottoporsi a controlli e ispezioni (anche intrusive) da parte della IAEA. Non avendo notificato all’IAEA sensibili attività nucleari ed avendo rifiutato di sottoporsi alle ispezioni previste dagli obblighi internazionali sottoscritti, l’Iran è già incappato in numerose sanzioni ed è stato richiamato dalla comunità internazionale , che ha più volte chiesto la sospensione delle attività nucleari più sensibili e il ripristino di un rapporto di piena collaborazione con la IAEA.
Alla base del rapporto, informazioni indicanti lo sviluppo di attività strutturate in un preciso programma nucleare fino alla fine del 2003. Secondo l’Agenzia “alcune attività attinenti lo sviluppo di armi nucleari potrebbero essere continuate dopo il 2003 ed essere tuttora in corso” .
Ad alimentare le preoccupazioni dell’Agenzia le notizie indicanti, già dal 2005, contatti tra il governo iraniano e reti clandestine che avrebbero fornito all’Iran il know-how necessario a potenziare le attività di conversione e arricchimento dell’uranio (già oltre la soglia critica del 20%). Oltre a non aver sospeso le attività di arricchimento, Tehran sarebbe recentemente entrata in possesso di tecnologia laser e avrebbe proceduto alla costruzione di nuovi siti nucleari, impianti termici e centrifughe, senza fornire adeguata documentazione. Dubbi permangono in merito allo stato delle attività di ritrattamento (considerate a più alto rischio di “proliferazione nucleare”), già vietate dalla IAEA.
Tehran smentisce le accuse, ribadendo le finalità civili delle ricerche in atto. La posizione iraniana potrebbe risultare tuttavia meno credibile, data anche la struttura macro-economica del Paese: un “rentier state”, ricco di gas e petrolio, che non avrebbe apparentemente motivo di costruire costose e pericolose centrali elettriche a fusione nucleare. L’agognata ricerca di un’autosufficienza energetica è dunque alla base del tentativo iraniano di nuclearizzazione.
Il fatto che il rapporto IAEA sia basato in larga misura su materiale posseduto, ormai da diversi anni, da governi e organizzazioni di intelligence occidentali, insinua un dubbio: quali sono i Paesi che hanno esercitato pressioni affinché la IAEA incorporasse questo materiale all’interno del proprio report ufficiale? Perché? Per rispondere a queste domande è indispensabile andare oltre il mero contenuto del report. Oltre alle ovvie implicazioni relative alla possibilità di violazione del TNP da parte dell’Iran, è fondamentale considerare il conflitto mai sopito tra Iran e Stati Uniti e le dinamiche regionali che coinvolgono Israele e Arabia Saudita.
Il conflitto Washington-Tehran
Le ostilità tra Washington e Tehran risalgono al 1979, quando la rivoluzione Khomeinista mise fine al governo filo-americano dello Shah Reza Pahlavi. Sostanzialmente motivate da rivalità politica, tali ostilità furono alimentate dall’appoggio fornito dall’Iran a gruppi armati di resistenza palestinesi e libanesi (Hamas ed Hezbollah) e dalle capacità iraniane di influenza in Afghanistan e Iraq. L’invasione dell’Iraq da parte degli USA e la conseguente caduta del regime di Saddam Hussein, nemico per antonomasia della Repubblica islamica, hanno favorito l’espansione della sfera di influenza iraniana nella regione. Nel periodo post-Saddam l’Iran è riuscito a raccogliere il consenso di parte della popolazione irachena, sempre più ostile al governo americano. In questo senso, è stata determinante la capacità di interazione con la componente sciita della popolazione (circa il 60% dei cittadini) e l’appoggio accordato dal governo di Tehran a gruppi armati dichiaratamente anti-americani (quali l’Esercito del Mahdi Muqtada al-Sadr). In Afghanistan, l’Iran ha saputo sfruttare il vuoto determinato dal crollo del regime del Mullah Omar, facendo sentire la propria influenza soprattutto tra la popolazione hazara, di confessione sciita, residente nell’ovest del Paese.
Fino ad oggi la politica statunitense nei confronti del governo iraniano si è mossa lungo tre direttrici, volte alla tutela dell’egemonia americana nella regione: esplicito e dichiarato sostegno alle forze politiche di opposizione, indisponibilità a trattare in merito alla questione dell’arricchimento, non-dichiarata minaccia di intervento militare. Conformemente a questa collaudata linea politica, in seguito alla pubblicazione del Rapporto IAEA la posizione statunitense sembra essersi consolidata al punto da spingere Obama a dichiarare che “nessuna posizione viene esclusa” .
I rapporti irano-israeliani
Le ostilità iraniane nei confronti di Israele sono iniziate nel 1979. Rimanendo più che altro confinate all’ambito declaratorio, hanno raggiunto l’apice nel 2005, con alcune presunte dichiarazioni di Ahmadinejad. L’unico episodio di intesa tra Israele e Iran risale agli anni precedenti la prima guerra del Golfo ed in chiave anti-irachena. Con lo scoppio della guerra del Golfo del 1991, che ha messo fine ai tentativi espansionistici del governo di Saddam, questa possibilità di intesa è presto venuta meno.
La politica israeliana nella regione è da sempre regolata dall’imperativo della “sicurezza nazionale”. Attenuatasi la minaccia irachena, dopo il 1991, la Repubblica islamica dell’Iran è assurta tra le principali preoccupazioni israeliane. Nel 1981 Israele, desideroso di mantenere la propria supremazia militare nella regione, arrivò a bombardare e distruggere il reattore nucleare iracheno Osirak. L’intransigenza mostrata da Israele verso l’Iraq di Saddam si ripropone nei confronti dell’Iran, tanto da spingere Netanyahu a dichiarare la possibilità di un attacco armato volto alla distruzione dei siti nucleari iraniani.
Le relazioni con Arabia Saudita e Paesi del CCG
L’Arabia Saudita è il rivale naturale della Repubblica Islamica, alla quale si contrappone innanzitutto per confessione (sunnita la prima, sciita la seconda ) e per etnia (araba la prima, persiana la seconda). Nonostante le differenze, nei vent’anni che precedettero la rivoluzione Khomeinista, gli interessi delle due monarchie si allinearono sia sul piano geopolitico (contenimento dell’Iraq), sia su quello ideologico (contrasto del nasserismo e del panarabismo).
La rivoluzione del 1979 andò a stravolgere gli equilibri esistenti. Da allora, l’Arabia Saudita risente dei tentativi egemonici iraniani (l’Iran rivoluzionario si propone infatti come modello per tutto il mondo islamico, non solo sciita). Oltre a temere il venir meno delle proprie ambizioni egemoniche nel Golfo, l’Arabia Saudita è intimorita dalla possibilità che la rivoluzione destabilizzi gli equilibri interni al Paese, esercitando la propria influenza nella regione orientale, maggiormente popolata da cittadini di confessione sciita e più ricca di idrocarburi.
Le ambizioni di potenza dell’Iran intimoriscono anche gli altri Paesi sunniti del Golfo, riunitisi nel Consiglio di Cooperazione (CCG). Oltre a temere, come l’Arabia Saudita, che l’allargamento della sfera di influenza iraniana possa stimolare la ribellione dei cittadini sciiti dei propri regni (problema particolarmente evidente per il Bahrein, data l’elevata percentuale di cittadini sciiti), i Paesi del CCG (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrein, EAU e Oman) temono che nuovi equilibri regionali incidano sulla capacità di esportazione di idrocarburi. In questo senso, il principale elemento di conflittualità ha riguardato la minaccia iraniana di bloccare lo stretto di Hormuz in caso di attacco ai propri siti nucleari. A tal fine, l’Iran ha allestito una base navale nel porto di Jask, aumentando enormemente le proprie capacità di interdizione marittima sullo stretto, attraverso cui transita circa il 40% del commercio marittimo di idrocarburi del mondo e la maggior parte delle esportazioni del CCG.
Sebbene il CCG sia stato creato con il preciso intento di contenere l’espansione della sfera di influenza iraniana nel Golfo, in questi anni i Paesi membri non hanno saputo far fronte comune contro l’Iran, preferendo tutelare interessi particolaristici: regni di piccole dimensioni hanno adottato posizioni moderate affinché i propri interessi non venissero soverchiati da quelli del grande e popoloso Stato saudita, gli Emirati Arabi Uniti hanno mantenuto relazioni estremamente lucrose con l’Iran (Dubai tratta circa il 60% delle esportazioni iraniane) ed il Qatar ha gestito, in condivisione con l’Iran, un ricco giacimento sottomarino di gas, cercando di mettere un freno alla potenza saudita nella speranza di accreditarsi come diplomazia egemone nella regione . Lo sconforto provocato dal mancato accoglimento delle rimostranze mosse all’amministrazione Bush in merito alla guerra in Iraq è stato un ulteriore elemento di stacco dalle posizioni americano-saudite. Gli arabi del Golfo temono inoltre che, in caso di conflitto, l’Iran possa essere intenzionato a colpire le basi militari americane nei propri Paesi, prevedendo disastrose conseguenze in termini economici ed umanitari.
Attacco armato o sanzioni?
Le voci di un possibile attacco militare israeliano su Teheran sono state nelle ultime settimane piuttosto insistenti. È vero però che l’eventualità di un attacco armato non incontrerebbe il consenso delle potenze internazionali. Lo stesso Obama, che pur aveva promesso sanzioni durissime destinate ad isolare l’Iran non sembrerebbe disposto ad avvallare tale eventualità. A distogliere gli Stati Uniti dal sostegno a Israele pesano le elezioni ormai prossime e l’impossibilità ad aprire un terzo fronte dopo quelli iracheno ed afghano. La visita in Israele di David Cohen, sottosegretario al tesoro per la lotta al terrorismo e incaricato in merito a possibili sanzioni contro l’Iran, e di Thomas Nides, vice-segretario di Stato, confermano questa ipotesi. Secondo varie analisi, Israele disporrebbe di una quantità di armamenti sufficienti a distruggere siti protetti come quelli di Nataz, Isfahan e Arak. Sembra da escludersi tuttavia l’eventualità di un attacco che non goda del sostegno statunitense, visti quantomeno i limiti israeliani relativi alla capacità di rifornimento autonomo in volo. Un duro “no” alla possibilità di un attacco armato giunge anche da una parte dell’opinione pubblica che si è dichiarata contraria all’aggressione. In una situazione già precaria per lo Stato ebraico (dovuta anche ai risvolti anti-israeliani delle rivoluzioni arabe, esemplificate dall’attacco all’ambasciata israeliana in Egitto) l’efficacia di un intervento militare sarebbe dubbia. I siti nucleari iraniani sarebbero infatti sparsi in tutto il Paese, spesso si troverebbero sottoterra o nelle immediate vicinanze di centri abitati. Oltre a comportare un alto numero di potenziali vittime civili iraniane, un attacco armato esporrebbe lo Stato ebraico agli attacchi da parte dell’Iran o dei movimenti filo-iraniani negli Stati arabi confinanti (Hezbollah libanesi, milizie militari sciite irachene, Hamas palestinesi).
Nell’improbabilità di un attacco armato, resta aperta la possibilità che nuove e dure sanzioni vengano imposte all’Iran. A sostenere la politica delle sanzioni, l’Unione europea mentre in senso contrario pesa il veto di Russia e Cina, membri permanenti del Cds. La Russia ha interesse a restare tra le “poche “ potenze nucleari al mondo, tuttavia non è intenzionata a guastare i rapporti con il governo di Tehran, dal momento che l’Iran si trova a ridosso dei suoi già instabili confini meridionali. Mosca è inoltre interessata a favorire la potenza iraniana in chiave anti-americana, al fine di arginare l’espansione statunitense e occidentale nelle aree strategiche di Golfo Persico e Medio Oriente. Seppur abbia cercato di persuadere il governo iraniano a fermare il programma nucleare, le motivazioni sopra citate hanno spinto il Paese a dichiarare la propria contrarietà a eventuali sanzioni, ribadendo il diritto di Tehran all’arricchimento . La posizione cinese è stata, in questi anni, molto simile a quella russa. Simile posizione, motivazioni differenti: bloccando le sanzioni imposte al governo iraniano, Pechino ha dato priorità alla salvaguardia dei propri approvvigionamenti energetici. L’Iran è infatti il primo fornitore di energia della Cina (la quale non possiede le riserve naturali della Russia).
Ciò che questi due Paesi sono disposti a fare non rientra affatto nelle possibilità di Israele, per il quale il nucleare iraniano rappresenta una minaccia esistenziale. Questa considerazione apre un’ultima questione: nell’impossibilità di un attacco armato, lo Stato ebraico si accontenterà dell’imposizione di sanzioni, seppur dure, nei confronti dell’Iran? I più timorosi sottolineano la possibilità che gli Stati Uniti barattino il loro “no” ad un attacco armato con una linea più possibilista nei confronti della politica israeliana, avvallando ad esempio la costruzione di nuovi insediamenti nei Territori Occupati palestinesi. Lungi dal giovare alla causa palestinese, i rapporti di forza esistenti potrebbero incidere sugli sviluppi del conflitto israelo-palestinese, determinando il ritorcersi della minaccia nucleare iraniana a svantaggio del popolo palestinese.
Nijmi Edres è dottoranda presso l’Università di Roma “La Sapienza”.